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LA PELLICCIA DI DALLA E LE CORNACCHIE CONDANNATE A MORTE di Annamaria Manzoni
 

LA PELLICCIA DI DALLA

E LE CORNACCHIE CONDANNATE A MORTE

di Annamaria Manzoni


C’è una fotografia di Lucio Dalla che obbliga a tanti pensieri, quella in cui appare avvolto in una pelliccia, di animale non bene identificato. Superfluo tessere le lodi di Lucio Dalla e ricordare che lui è stato molto di più di un cantante, è stato il cantore di un’umanità sconfitta, ha guardato nelle pieghe delle ingiustizie sociali e ne ha colto la sofferenza; ha visto la pena dei carcerati e ne ha condiviso gli aneliti a vivere la propria umanità nei sentimenti umiliati da una giustizia disumanizzante. Il soldato che, in Itaca, combatte una guerra che darà vanto solo al suo capitano ha la stessa profondità del povero di Bertol Brecht, che, qualunque sarà l’esito della guerra, sarà sempre un vinto.

Che una persona di questa levatura, di tanta sensibilità non abbia mai ritenuto degno di uno sguardo neppure distratto l’animalità sofferente tutto intorno è fonte di grande disappunto, ma vestirsi con quella pelliccia, simbolo riconosciuto dello sfruttamento degli animali, piegati al nostro piacere anche quando ciò risponde solo a capriccio e vanità, nel suo caso forse a banale provocazione, travalica i limiti di una pur colpevole indifferenza ed entra nell’area di un esibito disprezzo per ogni diritto degli animali non umani. Come è possibile che la loro tragedia venga addirittura aggravata non da un sadico, un violento, un arrogante e presuntuoso rappresentante della specie umana, ma da un uomo di forte e riconosciuta sensibilità?

Non sarebbe sufficiente, ma un po’ più rassicurante poter isolare la crudeltà e l’indifferenza verso la sofferenza degli animali in un universo popolato da persone incapaci di guardare al di là dell’immediatamente visibile, poco aduse a riflettere sulle ingiustizie del mondo, portate a non porsi domande imbarazzanti, a godere di ogni privilegio, costi quel che costi ad altri più deboli . Ma quando lo sprezzo dei più elementari diritti proviene da chi sa dare parole di poesia alle ingiustizie del mondo e a rimandarcele avvolte da quell’aura in cui la disperazione si stempera nella possibilità di condivisione, beh allora i conti proprio non tornano.

Un’altra notizia arricchisce il quadro: nella rubrica delle lettere al Corriere della Sera del1 marzo è apparsa quella del sig. Santandrea a denunciare la situazione, nei pressi di Milano, di alcune cornacchie rimaste stipate senza cibo né acqua in angustissime gabbie, in attesa di soppressione, perché ree di essere in sovrannumero: al momento opportuno, spiega, il loro capino verrà violentemente picchiato contro uno spigolo e il problema sarà risolto. La lettera riceve dalla destinataria, la prof. Isabella Bossi Fedrigotti, specialista in psicologia, una lapidaria risposta: se questo è quanto, meglio allora i cacciatori: un colpo secco e via. In pratica, è come se alla denuncia di situazioni di bambini in condizioni di maltrattamento, l’esperta avesse dato una risposta del tipo “tanto vale piuttosto toglierli ai genitori appena nati”o magari “meglio allora non farli i figli”. Siamo invece del tutto certi che non sarebbe stato questo il commento della psicologa, che avrebbe invece ritenuta fondamentale un’analisi del contesto in cui determinate aberrazioni maturano e avrebbe fatto riferimento a studi e ricerche per elaborare percorsi di accompagnamento ad un doveroso tentativo di decodificare il problema, in virtù della sua esperienza, sensibilità, conoscenza approfondita, e soprattutto del dovere etico e professionale di farsi carico della sofferenza dei più deboli. Per le cornacchie invece no: meglio un colpo e via.

Ciò che accomuna due situazioni tanto diverse è il mantenimento degli animali, chiunque essi siano, al di fuori dall’orizzonte etico, è il “confine dell’umano” come muro invalicabile per l’empatia e per l’attribuzione del diritto alla vita, alla libertà, alla non sofferenza. Niente di nuovo sotto il sole, dal momento che questo è il mondo in cui viviamo, mondo per altro fortunatamente attraversato anche da proteste soffertissime per questo stato di cose e di lotte, ideologiche e non, per i cambiamenti che urgono. L’individualità specifica di un poeta dell’umano sentire e di una studiosa di dinamiche intrapsichiche, alla ricerca, ognuno con la propria specificità, del bandolo della matassa dell’umana complessità, lasciano però sconcertati: testimoniano che evidentemente non bastano la competenza, l’abitudine alla riflessione, lo sguardo attento alle relazioni, la conoscenza di bisogni e di pulsioni, un afflato solidale verso la sofferenza per prendere coscienza che il posto che gli animali occupano oggi su questa terra non è quello giusto, che ben altro sarebbe se vigessero criteri di giustizia e di armonia; anche per poeti e scienziati più forte ed efficace, lì a portata di mano, è l’attrazione verso ciò che è consolidato, comodo, foriero e assicuratore di privilegi.

Evidentemente la barriera che separa l’umano dal non umano è ancora oggi invalicabile per troppi ; da qui , dalla necessità del suo superamento, bisogna ripartire, con un rivolgimento che non può non mettere in discussione le basi stesse di un pensiero nutrito di postulati tutti tesi ad assicurarci, specie eletta, il posto migliore nelle cose del mondo. “Questo mondo è sbagliato” afferma Josè Saramago e si augura “ che ne venga un altro”, conservando, nonostante tutto, notevole ottimismo nel non auspicarne semplicemente la fine: la tentazione è forte.


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